Marina Boscaino, su l'Unità del 30.5.2008, risponde all'intervento di Giorgio Vittadini, ex presidente nazionale della Compagnia delle Opere, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, un’altra società facente capo a Comunione e Liberazione, che dalla prima pagina de il Giornale di qualche tempo fa, ha lanciato l'appello «Tre idee per la scuola»: parità, autonomia, valutazione".
Una prima osservazione: il centrodestra sembra aver capito il fondamentale ruolo che la scuola può giocare nel panorama del Paese. Nonostante sull’argomento in campagna elettorale non abbiano speso parole diverse da quelle che annunciavano il ritorno della scuola delle “3i”, dopo la vittoria elettorale la scuola ha assunto un ruolo di primo piano nelle esternazioni di molti membri del Governo; oltre alle discutibili anticipazioni dei ministri dell’Istruzione e dell’Università e dell’Amministrazione e Innovazione, il presidente della Camera Fini e lo stesso premier sono tornati diverse volte sull’argomento, direttamente e non.
La cosa non può rallegrare chi ha a cuore la sorte della scuola pubblica; né chi crede realmente al fatto che la cura della scuola rappresenti il punto di partenza per una rinascita effettiva - sul piano culturale e civile - del Paese. Tra le tante cose che il “rinnovato” centrodestra sembra aver capito, c’è anche il fatto che la scuola è un vero e proprio albero di trasmissione di istanze e modelli. E che quindi su di essa si debba investire ideologicamente per creare consenso e forgiare coscienze.
Nell’articolo di Vittadini si lascia molto spazio alla parola “libertà”. Il partigiano “morto per la libertà” è uno sbiadito ricordo, che molti tendono a liquidare: non va più di moda. E da qualche tempo, nei fatti, si recita il requiem per il significato che a quella parola ha attribuito una porzione importante della storia del Novecento. L’abuso del termine e l’assimilazione di esso a modelli economici “vincenti” ne limita potenzialità e ne cancella la tradizione, appiattendolo su significati economicisti, individualisti, non solidali.
Appellandosi alla legge 62/2000 (la Berlinguer sulla parità scolastica, la madre di tutte le derive privatistiche) Vittadini propone di «attuare anche a livello nazionale, come già preannunciato dal ministro Gelmini, quella parità economica tra scuola dello Stato e privata che, laddove si è cominciato a fare in alcune regioni con l’adozione di voucher, ha raggiunto risultati lusinghieri (...). Occorre dare soldi alle famiglie con parametri di equità e poi riconoscere loro la facoltà di scegliere le scuole che preferiscono per il bene del ragazzo».
Requiem anche per l’art. 33 della Costituzione, che come è noto, prevede che «Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato»: lo scardinamento totale della centralità del sistema pubblico. Già, pubblico: un’altra parola che non va più di moda, con la scusa di omologarla ad inefficienza, a demotivazione, a inerzia elefantiaca.
Invece di curare le cause di questo spesso legittimo accostamento, si approfitta per buttare il bambino con l’acqua sporca, liquidando - insieme alla scuola pubblica - i valori che essa configura: tutela di pari opportunità per tutti i cittadini; laicità; garanzia della rimozione degli ostacoli che garantiscono l’uguaglianza; accoglienza, emancipazione, condivisione nella diversità; libertà di insegnamento e diritto allo studio. Gettare frettolosamente tali principi nelle fauci di quell’esigente Minotauro che si chiama mercato, si sa, è una delle massime ambizioni del centro destra; ma una finalità che nemmeno il centro sinistra ha colpevolmente disdegnato.
L’operazione porta con sé automaticamente il secondo passaggio del ragionamento di Vittadini: «per favorire un’esperienza di libertà di educazione anche nella scuola statale, occorre conferire alle famiglie pieno autogoverno». L’uso dell’avverbio “anche” non è casuale, e dà un senso ulteriore alla manipolazione del significato della parola libertà cui si accennava.
La proposta di Vittadini per rendere le famiglie definitivamente consumatrici della merce-scuola (possibilmente privata), fomentate dall’induzione di bisogni diversificati e illimitati, legittimate e lusingate da un protagonismo mercantile in un servizio a domanda individuale si configura in una curiosa e pericolosissima revisione del concetto di autonomia: «finora è stata data una parziale autonomia di curriculum (20%), un’autonomia didattica paralizzata da enormi rigidità delle cattedre, un’automomia finanziaria bloccata dall’impossibilità di raccogliere soldi sul mercato senza reale autogoverno».
Largo dunque alla scuola del Nord, con programmi autonomi e insegnanti reclutati autonomamente; largo al mercato dell’incanto e ponti d’oro al miglior offerente: la concorrenza come criterio privilegiato; largo alla flessibilità lavorativa.
Infine la valutazione «esterna della scuola mediante l’accertamento degli apprendimenti e delle competenze dei ragazzi e rilevando le abilità professionali degli insegnanti e dei dirigenti». Questo Mago Merlino del liberismo la fa un po’ troppo facile. Certo, tutto potrebbe essere realmente facile: i numeri ci sono, la determinazione anche. Mi chiedo se, al di là delle buone maniere, del bipartisan a tutti i costi, dei mutamenti di tono, del gentlemen agreement quel che resta dell’opposizione parlamentare vorrà considerare con allarme queste proposte che - ne sono certa - non tarderanno ad essere accolte da Viale Trastevere.
Una prima osservazione: il centrodestra sembra aver capito il fondamentale ruolo che la scuola può giocare nel panorama del Paese. Nonostante sull’argomento in campagna elettorale non abbiano speso parole diverse da quelle che annunciavano il ritorno della scuola delle “3i”, dopo la vittoria elettorale la scuola ha assunto un ruolo di primo piano nelle esternazioni di molti membri del Governo; oltre alle discutibili anticipazioni dei ministri dell’Istruzione e dell’Università e dell’Amministrazione e Innovazione, il presidente della Camera Fini e lo stesso premier sono tornati diverse volte sull’argomento, direttamente e non.
La cosa non può rallegrare chi ha a cuore la sorte della scuola pubblica; né chi crede realmente al fatto che la cura della scuola rappresenti il punto di partenza per una rinascita effettiva - sul piano culturale e civile - del Paese. Tra le tante cose che il “rinnovato” centrodestra sembra aver capito, c’è anche il fatto che la scuola è un vero e proprio albero di trasmissione di istanze e modelli. E che quindi su di essa si debba investire ideologicamente per creare consenso e forgiare coscienze.
Nell’articolo di Vittadini si lascia molto spazio alla parola “libertà”. Il partigiano “morto per la libertà” è uno sbiadito ricordo, che molti tendono a liquidare: non va più di moda. E da qualche tempo, nei fatti, si recita il requiem per il significato che a quella parola ha attribuito una porzione importante della storia del Novecento. L’abuso del termine e l’assimilazione di esso a modelli economici “vincenti” ne limita potenzialità e ne cancella la tradizione, appiattendolo su significati economicisti, individualisti, non solidali.
Appellandosi alla legge 62/2000 (la Berlinguer sulla parità scolastica, la madre di tutte le derive privatistiche) Vittadini propone di «attuare anche a livello nazionale, come già preannunciato dal ministro Gelmini, quella parità economica tra scuola dello Stato e privata che, laddove si è cominciato a fare in alcune regioni con l’adozione di voucher, ha raggiunto risultati lusinghieri (...). Occorre dare soldi alle famiglie con parametri di equità e poi riconoscere loro la facoltà di scegliere le scuole che preferiscono per il bene del ragazzo».
Requiem anche per l’art. 33 della Costituzione, che come è noto, prevede che «Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato»: lo scardinamento totale della centralità del sistema pubblico. Già, pubblico: un’altra parola che non va più di moda, con la scusa di omologarla ad inefficienza, a demotivazione, a inerzia elefantiaca.
Invece di curare le cause di questo spesso legittimo accostamento, si approfitta per buttare il bambino con l’acqua sporca, liquidando - insieme alla scuola pubblica - i valori che essa configura: tutela di pari opportunità per tutti i cittadini; laicità; garanzia della rimozione degli ostacoli che garantiscono l’uguaglianza; accoglienza, emancipazione, condivisione nella diversità; libertà di insegnamento e diritto allo studio. Gettare frettolosamente tali principi nelle fauci di quell’esigente Minotauro che si chiama mercato, si sa, è una delle massime ambizioni del centro destra; ma una finalità che nemmeno il centro sinistra ha colpevolmente disdegnato.
L’operazione porta con sé automaticamente il secondo passaggio del ragionamento di Vittadini: «per favorire un’esperienza di libertà di educazione anche nella scuola statale, occorre conferire alle famiglie pieno autogoverno». L’uso dell’avverbio “anche” non è casuale, e dà un senso ulteriore alla manipolazione del significato della parola libertà cui si accennava.
La proposta di Vittadini per rendere le famiglie definitivamente consumatrici della merce-scuola (possibilmente privata), fomentate dall’induzione di bisogni diversificati e illimitati, legittimate e lusingate da un protagonismo mercantile in un servizio a domanda individuale si configura in una curiosa e pericolosissima revisione del concetto di autonomia: «finora è stata data una parziale autonomia di curriculum (20%), un’autonomia didattica paralizzata da enormi rigidità delle cattedre, un’automomia finanziaria bloccata dall’impossibilità di raccogliere soldi sul mercato senza reale autogoverno».
Largo dunque alla scuola del Nord, con programmi autonomi e insegnanti reclutati autonomamente; largo al mercato dell’incanto e ponti d’oro al miglior offerente: la concorrenza come criterio privilegiato; largo alla flessibilità lavorativa.
Infine la valutazione «esterna della scuola mediante l’accertamento degli apprendimenti e delle competenze dei ragazzi e rilevando le abilità professionali degli insegnanti e dei dirigenti». Questo Mago Merlino del liberismo la fa un po’ troppo facile. Certo, tutto potrebbe essere realmente facile: i numeri ci sono, la determinazione anche. Mi chiedo se, al di là delle buone maniere, del bipartisan a tutti i costi, dei mutamenti di tono, del gentlemen agreement quel che resta dell’opposizione parlamentare vorrà considerare con allarme queste proposte che - ne sono certa - non tarderanno ad essere accolte da Viale Trastevere.
L'articolo termina con un'esortazione ricolta all'onorevole Maria Pia Garavaglia, ministro ombra della Pubblica Istruzione: "Donne e uomini - dentro e fuori dal Parlamento - che avete a cuore il futuro del nostro Paese, di cui la scuola pubblica è garanzia, non scoraggiamoci: l’opposizione siamo anche noi".
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