Umberto Galimberti, professore di Filosofia della Storia all'Università Ca' Foscari di Venezia, nel 2002 ha scritto, su La Repubblica, questo articolo che può essere letto come scritto oggi: é infatti attuale e rispecchia una tendenza che, anzichè ridursi, sembra a mio avviso, progredire e consolidarsi sempre di più nella società. Tale tendenza é quella dell'omologazione, del mancato riconoscimento della diversità come valore e come risorsa. Anche non assomigliare a modelli precostituiti e accettati come gli unici da perseguire e affermare, può rappresentare un motivo, o meglio, un pretesto per scatenere contro chi é ritenuto "colpevole" di questo tipo di "devianza", la più brutale e gratuita violenza. Occorre "non abbassare la guardia", le famiglie, la scuola, la società e le istituzioni tutte debbono vigilare perché non continui a diffondersi questo "virus letale" che mina alla base la convivenza civile, che mette gli uomini uno contro l'altro, che imbarbarisce l'umanità.
1. La coscienza omologata. Un'azione è omologata quando è conforme a una norma che la prescrive, quindi quando non è un'azione, ma una conformazione. E conformazioni sono tutte le azioni che si compiono in un apparato e in funzione dell'apparato, al cui interno il fare da sé cessa dove incomincia ciò che deve essere fatto in perfetto accordo con le altre componenti dell'apparato. Gli scopi che l'apparato si propone non rientrano nelle competenze del singolo individuo e talvolta, stante l'alta sofisticazione tecnica, nelle possibilità della sua competenza. Ciò comporta che la "coscienza" dell'individuo si riduce alla "coscienziosità" nell'esecuzione del suo lavoro, e in questa riduzione è l'atto di nascita della "coscienza conformista", a cui viene richiesta solo una buona qualità di collaborazione, indipendente dagli scopi che sono di competenza dell'apparato.
2. Il sano realismo. Sarà per questo che fin da piccoli ci siamo sentiti dire che il successo si consegue più facilmente se ci si adatta alle esigenze degli altri (rinunciando ovviamente a realizzare se stessi), e così abbiamo fatto quando imitavamo i tratti e gli atteggiamenti di tutte le collettività in cui entravamo a far parte. Dal gruppo dei bambini con cui giocavamo, ai compagni di classe, ai gruppi di lavoro, a nostre spese abbiamo imparato che ciò che paga è l'uniformità più rigorosa, dove la capacità di adattarsi all'organizzazione appariva come l'unica condizione per avere una certa influenza su di essa. Alla minima obiezioni c'era sempre chi ci ricordava che questo atteggiamento si chiama "sano realismo", mentre in noi sorgeva il sospetto che con questa espressione non ci si riferiva tanto a una rappresentazione fedele del reale, ma a quella determinata presa di posizione surreale che è l'accettazione indiscussa dell'esistente. Il cui valore consiste semplicemente nell'essere così come esso è, senza la minima cura della sua qualità morale.
3. L'incoscienza della coscienza omologata. Affinché l'adattamento non venga avvertito come una coercizione è necessario che il mondo in cui viviamo, che è poi il mondo della tecnica e dell'economia globale, non venga avvertito come uno dei "possibili" mondi, ma come l'"unico" mondo fuori dal quale non si danno migliori possibilità d'esistenza. Allora e solo allora l'ordine e l'obbedienza non saranno più percepiti come fatti coercitivi, allo stesso modo di come i pesci del fondo marino non percepiscono come coercizione la pressione dell'acqua e gli animali di terra la pressione atmosferica. Se il mondo dei beni da produrre e consumare riesce a costituirsi come mondo coeso senza lacune, senza interruzioni, senza alternative, gli obblighi imposti da questo mondo e le obbedienze richieste non saranno più avvertiti come tali, bensì come "condizioni naturali" di essere nel mondo. Ma quando un mondo riesce a farsi passare come l'unico mondo, l'omologazione degli individui raggiunge livelli di perfezione tali che i regimi assoluti o dittatoriali delle epoche che ci hanno preceduto neppure lontanamente avrebbero sospettato di poter realizzare.
4. Il conformismo come condizione d'esistenza. Senza interruzione, senza lacune, senza sospensione, non ci rendiamo conto da quante catene ci ha reso dipendenti l'età della tecnica e dell'economia globale e, se nel secolo scorso Marx poteva dire che la maggioranza dell'umanità "non aveva niente da perdere tranne le sue catene", oggi si dovrebbe dire che senza queste catene non avrebbe di che sopravvivere. Questa è la ragione per cui, quando le catene si spezzano (sciopero dei mezzi di trasporto, interruzione dell'energia elettrica, ritardo nei rifornimenti alimentari), da parte di tutti ne viene invocata subito la saldatura. Questa richiesta è l'indice non solo del tasso di dipendenza di ciascun individuo dal mondo della tecnica e dell'economia globale, ma anche del tasso di collaborazione spontanea, quindi di omologazione e di conformismo, affinché questo mondo permanga il più possibile garantito e assicurato senza interruzioni, rischi o possibilità di cedimento, anche se al suo interno non è preclusa, anzi è sollecitata, la possibilità di continuare a ripetere il vocabolario dell'individuo.
5. I mezzi di comunicazione come mezzi di omologazione. La società conformista, nonostante l'enorme quantità di voci diffuse dai media, o forse proprio per questo, parla nel suo insieme solo con se stessa. Alla base infatti di chi parla e di chi ascolta non c'è, come un tempo, una diversa esperienza del mondo, perché sempre più identico è il mondo a tutti fornito dai media, così come sempre più identiche sono le parole messe a disposizione per descriverlo. Il risultato è una sorta di comunicazione tautologica, dove chi ascolta finisce con l'ascoltare le identiche cose che egli stesso potrebbe tranquillamente dire, e chi parla dice le stesse cose che potrebbe ascoltare da chiunque. In un certo senso si può avanzare l'ipotesi che la diffusione dei mezzi di comunicazione che la tecnica ha reso esponenziale tende ad abolire la necessità della comunicazione perché non si dà esigenza di comunicazione là dove è abolita la differenza specifica tra le esperienze del mondo che sono alla base di ogni bisogno comunicativo. Con il loro rincorrersi, infatti, le mille voci che riempiono l'etere aboliscono progressivamente le differenze che ancora sussistono tra gli uomini, e perfezionando la loro omologazione, rendono superfluo, se non impossibile, parlare in prima persona. In questo modo i mezzi di comunicazione cessano di essere dei "mezzi", perché nel loro insieme compongono quel "mondo" fuori dal quale non è dato avere altra e diversa esperienza. Questa è la ragione per cui in una società omologata come la nostra, "parlare" non significa come ha sempre significato "comunicare", ma eliminare le differenze che ancora potrebbero sussistere con i nostri simili, in modo che l'anima di ciascuno, già coestensiva al mondo di tutti, diventi coestensiva e al limite sovrapponibile all'anima di chiunque.
Umberto Galimberti, La Repubblica, agosto 2002
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