ALTRO
"La parola, con l’iniziale in maiuscolo, ebbe un certo fascino negli anni Settanta, grazie agli scimmiottamenti nostrani di Lacan. Al giro di boa degli anni Novanta se ne registrò un’altra ondata: il protagonismo degli immigrati nelle prime lotte per il riconoscimento dei propri diritti trascinava con sé anche alcune scorie letterarie e linguaggi snob. E ci fu un’epoca di “incontri con l’altro”, “rispetto dell’altro”, e simili, (lontani dalla concretezza del titolo di un bel film francese: Il gusto degli altri).
Oggi “l’altro", in minuscolo e mai al plurale, sopravvive in alcune abitudini inerti, sempre con una pronuncia enfatizzata e a volte con un tremolio della voce che tradisce il consumatore di emozioni a buon mercato. Arriva anche per Natale, in cartoline elettroniche, a ricordarci che l’altro è scuro di pelle (prevalentemente), affamato (quasi sempre), lacero e, soprattutto, per parafrasare il pilota della Raf de Le galline in fuga …là.
Guai se l’altro si avvicina, se cambia abito se, soprattutto, si concretizza e si declina perciò al plurale, o al singolare preceduto da un articolo indeterminativo: gli altri, un altro. Scattano allora, per lo più, riflessi assimilazionisti (come si permette di rimanere così altro?), stereotipi inconfessati (le nigeriane battono, le colombiane ingoiano ovuli di coca, gli albanesi meglio lasciar perdere), risentimenti (chi lo autorizza a rubarmi un simbolo e a sostituirlo con la nuda presenza?).
L’altro in questo modo non è soggetto che agisce, ma è oggetto dello sguardo. L’incontro con l’altro non è occasione di conoscenza e di arricchimento, ma di nobilitazione (meglio, di esibizione di una nobiltà preesistente). Quando l’altro si sottrae come oggetto e si afferma come soggetto, smette di essere tale, e diventa l’albanese, la spacciatrice sudamericana, l’infido levantino.
Si cerca l’esotico (e “altro” convive con le cene “etniche” e simili nefandezze linguistiche) quando non si sa “giocare con le molteplici prospettive e cornici a cui si presta qualsiasi evento”, e si ha bisogno di esibire la capacità di provare situazioni, e incontrare, persone eccezionali.
Chi non sa ascoltare gli altri, inventa l’altro come esotico da consumare: lo fa fuori, divorandolo, unico rapporto che intrattiene con una presunta autenticità, perduta per sempre".
(tratto da Lessico del razzismo democratico di G. Faso, segnalato nel post precedente)
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