“La Filosofia in quarantadue favole” è un piccolo libro che parla di Filosofia. Il suo autore, Ermanno Bencivenga, professore di Filosofia all’Università della California (Irvine), utilizza un linguaggio insolito come quello delle favole, per introdurci alle domande che, da sempre, la Filosofia si pone. Prima di questo, nel 1991, Bencivenga ha scritto “La Filosofia in trentadue favole” che ha riscosso, come testo di divulgazione filosofica, un grande successo di pubblico.
Quando un giornalista ha chiesto all’autore perché scrivere favole per parlare di Filosofia, egli ha risposto:
"Ho sempre sostenuto che il filosofo per antonomasia può essere il bambino. E’ quello che si fa domande impertinenti, trova le storie più strampalate, esplora e rischia più di chiunque altro. Il vero filosofo, per me, è un bambino che non è cresciuto, che ha mantenuto lo stesso coraggio del bambino avendo acquisito anche qualche strumento in più. Se invece la filosofia si sedimenta sulla competenza accademica e sui gerghi specialistici, muore e perde la sua forza propulsiva".
Ecco, di seguito, una delle quarantadue favole:
C’ero una volta io
C’ero una volta io, ma non andava bene. Mi capitava di incontrare gente per strada e di scambiarci due parole, e per un po’ la conversazione era simpatica e calorosa, ma arrivava sempre il momento in cui mi si chiedeva “Chi sei?” e io rispondevo “Sono io”, e non andava bene. Era vero, perché io sono io, è la cosa che sono di più, e se devo dire chi sono non riesco a pensare a niente di meglio. Eppure non andava bene lo stesso: l’altro faceva uno sguardo imbarazzato e si allontanava il più presto possibile. Oppure chiamavo qualcuno al telefono e gli dicevo “Sono io”, ed era vero, e non c’era un modo migliore, più completo, più giusto di dirgli chi ero, ma l’altro imprecava o si metteva a ridere e poi riagganciava.
Così mi sono dovuto adattare. Prima di tutto mi sono dato un nome, e se adesso mi si chiede chi sono rispondo: “Giovanni Spadoni”. Non è un granché, come risposta: se mi si chiedesse chi è Giovanni Spadoni probabilmente direi che sono io. Ma, chissà perché, dire che sono Giovanni Spadoni funziona meglio. Funziona tanto bene che nessuno mai mi chiede chi è Giovanni Spadoni: si comportano tutti come se lo sapessero.
Invece di chiedermi chi è Giovanni Spadoni gli altri mi chiedono dove e quando sono nato, dove abito, chi erano mio padre e mia madre. Io gli rispondo e loro sono contenti. E forse sono contenti perché credono che io sia quello che è nato nel posto tale e abita nel posto talaltro, e che è figlio di Tizio e di Caia e padre di questo e di quello. Il che non è vero, ovviamente: non c’è niente di speciale nel posto tale o talaltro, o in Tizio o in Caia. Se fossi nato altrove, in un’altra famiglia, sarei ancora lo stesso, sarei sempre io: è questa la cosa che sono di più, la cosa più vera e più giusta che sono. Ma questa cosa non interessa a nessuno: gli interessa dell’altro, e quando lo sanno sono contenti.
Una volta c’ero io, e non andava bene. Adesso c’è Giovanni Spadoni, che è nato a X e vive a Y e così via. E io non sono niente di tutto questo, ma le cose vanno benissimo.
Quando un giornalista ha chiesto all’autore perché scrivere favole per parlare di Filosofia, egli ha risposto:
"Ho sempre sostenuto che il filosofo per antonomasia può essere il bambino. E’ quello che si fa domande impertinenti, trova le storie più strampalate, esplora e rischia più di chiunque altro. Il vero filosofo, per me, è un bambino che non è cresciuto, che ha mantenuto lo stesso coraggio del bambino avendo acquisito anche qualche strumento in più. Se invece la filosofia si sedimenta sulla competenza accademica e sui gerghi specialistici, muore e perde la sua forza propulsiva".
Ecco, di seguito, una delle quarantadue favole:
C’ero una volta io
C’ero una volta io, ma non andava bene. Mi capitava di incontrare gente per strada e di scambiarci due parole, e per un po’ la conversazione era simpatica e calorosa, ma arrivava sempre il momento in cui mi si chiedeva “Chi sei?” e io rispondevo “Sono io”, e non andava bene. Era vero, perché io sono io, è la cosa che sono di più, e se devo dire chi sono non riesco a pensare a niente di meglio. Eppure non andava bene lo stesso: l’altro faceva uno sguardo imbarazzato e si allontanava il più presto possibile. Oppure chiamavo qualcuno al telefono e gli dicevo “Sono io”, ed era vero, e non c’era un modo migliore, più completo, più giusto di dirgli chi ero, ma l’altro imprecava o si metteva a ridere e poi riagganciava.
Così mi sono dovuto adattare. Prima di tutto mi sono dato un nome, e se adesso mi si chiede chi sono rispondo: “Giovanni Spadoni”. Non è un granché, come risposta: se mi si chiedesse chi è Giovanni Spadoni probabilmente direi che sono io. Ma, chissà perché, dire che sono Giovanni Spadoni funziona meglio. Funziona tanto bene che nessuno mai mi chiede chi è Giovanni Spadoni: si comportano tutti come se lo sapessero.
Invece di chiedermi chi è Giovanni Spadoni gli altri mi chiedono dove e quando sono nato, dove abito, chi erano mio padre e mia madre. Io gli rispondo e loro sono contenti. E forse sono contenti perché credono che io sia quello che è nato nel posto tale e abita nel posto talaltro, e che è figlio di Tizio e di Caia e padre di questo e di quello. Il che non è vero, ovviamente: non c’è niente di speciale nel posto tale o talaltro, o in Tizio o in Caia. Se fossi nato altrove, in un’altra famiglia, sarei ancora lo stesso, sarei sempre io: è questa la cosa che sono di più, la cosa più vera e più giusta che sono. Ma questa cosa non interessa a nessuno: gli interessa dell’altro, e quando lo sanno sono contenti.
Una volta c’ero io, e non andava bene. Adesso c’è Giovanni Spadoni, che è nato a X e vive a Y e così via. E io non sono niente di tutto questo, ma le cose vanno benissimo.
E. Bencivenga, La filosofia in quarantadue favole, Oscar Saggi Mondadori
1 commento:
buongiorno, sono anna e scrivo da Mantova. Ho letto il libro di Bencivenga e, sebbene lo scrittore non ponga le domande in modo esplicito, le risposte permettono di risalire alla domanda stessa. Trovo che sia scritto molto bene perché permette anche a persone che sanno poco di filosofia (sono insegnante di matematica), di entrare un po' in questa disciplina affascinante. Mi riprometto di leggere anche altre cose scritte da Bencivenga.
Un saluto Anna
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