venerdì 23 gennaio 2009

Esame di Stato 2009


Ecco il link per leggere il DM n. 7 e il DM n. 8 del 21 gennaio 2009 sull'Esame di Stato 2009:
http://www.pubblica.istruzione.it/normativa/2009/dm7_09.shtml

http://www.pubblica.istruzione.it/normativa/2009/dm8_09.shtml

Di seguito il link per conoscere le "MATERIE OGGETTO DELLA II PROVA SCRITTA E MATERIE AFFIDATE AI COMMISSARI ESTERNI - A.S. 2008/2009"


http://www.pubblica.istruzione.it/normativa/2009/allegati/all_ord_dm7_09.pdf

mercoledì 21 gennaio 2009

Disabili o diversamente abili?



Caro Ministro, quell'espressione non va (e non solo quella...)
Non è certo con operazioni di "cosmesi comunicativa", come l'uso del termine "diversamente abile", che si dimostra la volontà di risolvere effettivamente i problemi degli studenti universitari con disabilità: questi hanno invece bisogno di servizi, di investimenti e di una nuova cultura. Lo scrive al ministro della Pubblica Istruzione Mariastella Gelmini un operatore che lavora da tempo nel campo dei servizi universitari di supporto agli stessi studenti universitari con disabilità:

"Sono un operatore che lavora da anni nel campo della disabilità e in particolare nell'ambito dei servizi universitari di supporto agli studenti universitari con disabilità.Le scrivo - onorevole Gelmini - sollecitato dalla lettura del Decreto Ministeriale da lei firmato il 28 agosto 2008 (protocollo n.
159/08) - Criteri ripartizione stanziamento per interventi studenti diversamenti abili anno 2008 - in cui campeggia appunto l'espressione "studenti diversamente abili", sulla quale vorrei proporre alcune brevi considerazioni.
Mi permetta di partire da una frase illuminante dello scrittore Giuseppe Pontiggia, apposta come dedica al suo bel libro Nati due volte: «A tutte le persone disabili che lottano, non per diventare uguali agli altri, ma se stessi».Questa dedica ci interpella tutti, nessuno escluso. In nessun settore della vita, infatti, le parole sono chiacchiere, tanto meno nell'ambito del sistema formativo formale (quello di Sua competenza come Ministro): nella correzione dei temi, ad esempio, contano perfino gli accenti e gli apostrofi, si immagini quindi il peso specifico delle parole!La mia non vuole essere, per altro, una mera disputa lessicografica o semantica; nell'uso di certi termini, infatti, sono in ballo questioni assai più profonde, che concernono il rispetto vero delle persone, delle loro storie di vita e della loro condizione esistenziale.
L'espressione "studenti diversamente abili" è sempre più diffusa nel mondo dell'informazione e della politica, ma moltissimi fra i più competenti, preparati e appassionati operatori italiani nell'area delle disabilità hanno eccepito vigorosamente su di essa.Le riporto alcuni esempi. La teologa Adriana Zarri scrive che questa «ridicola e ipocrita definizione rappresenta il colmo dell'imbarbarimento e, in fondo, dimostra una mancata accettazione di uno stato di difficoltà»; Andrea Pancaldi, tecnico che collabora con il Comune di Bologna, parla di termine «carico di ambiguità»; il giornalista Franco Bomprezzi [nostro direttore responsabile, N.d.R.] denuncia una «deriva linguistica che, nell'enfatizzare le capacità di alcuni, ignora le persone con maggiori difficoltà».Carlo Giacobini, infine [nostro direttore editoriale, N.d.R.], descrive il "neologismo" con acuta ironia come «un ansiolitico linguistico, utile al massimo a mettere in pace la coscienza di coloro che non si sono mai fatti carico sino in fondo di questi problemi».
Personalmente ritengo che si tratti di un tentativo maldestro di "sdoganare" le disabilità, rimuovendo (o se si preferisce camuffando) le difficoltà reali che assillano giorno per giorno gli studenti universitari con disabilità. Invece di lottare per affermare nella prassi quotidiana il diritto all'uguaglianza di opportunità, si inseguono goffamente modelli efficientisti ed estetici. Qualcuno potrebbe obiettare che l'espressione mira a valorizzare le abilità residue (quando ci sono), il che è sicuramente doveroso, ma ha come indispensabile presupposto il riconoscimento leale e oggettivo delle limitazioni delle attività, non la loro rimozione attraverso operazioni di "cosmesi comunicativa".
In realtà, l'inserimento e l'inclusione sono possibili, da una parte mediante provvedimenti amministrativi che favoriscano i progetti di vita indipendente di ciascuno (e quindi mettendo in campo investimenti); dall'altra, attraverso processi culturali di accettazione lunghi e complessi, che non solo non passano attraverso la proposta di nuove e ambigue definizioni, ma possono addirittura essere da esse ostacolati.Gli studenti universitari con disabilità hanno bisogno di servizi e non di questi biglietti da visita ingenui, e anche fuorvianti. Vale infine la pena ricordare anche che il termine "diversamente abile" non ha alcun rigore scientifico, né alcuna valenza sul piano legislativo ed è intraducibile in altre lingue. L'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), che il 22 maggio 2001 ha approvato la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute (
ICF), suggerisce di usare il termine "persone disabili" o "persone con disabilità".
Mi auguro, Signor Ministro, che non voglia liquidare questa mia lettera come un semplice esercizio di pedanteria e puntigliosità semantica, ma intenderla come un piccolo contributo sulla strada da percorrere per la piena promozione dei diritti di cittadinanza delle persone con disabilità e per la creazione delle condizioni perché possano essere se stesse e non quello che noi vogliamo che siano. E allora mi creda, Signor Ministro, tutti noi saremo più autenticamente noi stessi.


Carmine Rizzo - Superando.it. 21/01/2009

domenica 18 gennaio 2009

Straniero?


Nella Carta europea dei diritti fondamentali, approvata a Nizza nel 2000, base di lavoro per l’elaborazione della Costituzione europea, l’art. 14 recita: “Ogni individuo ha diritto all’istruzione e all’accesso alla formazione professionale continua; tale diritto comporta la possibilità di accedere ..."
‘A ogni individuo’ si dice, non ‘a ogni cittadino dell’unione’.
L’istruzione non è un esercizio di uno status già posseduto, ma strumento per acquisire tale status (un prerequisito).
‘Il diritto all’istruzione non può essere rifiutato a nessuno’ (art. 2 protocollo addizionale Convenzione dei diritti umani’).
L’impegno per i 43 stati dell’attuale Consiglio d’Europa è di assumere l’istruzione all’interno del paniere dei diritti in grado di connotare la persona umana.
Lo Stato ha il dovere di garantire tali diritti attraverso il complesso di compiti, funzioni e norme cui si dà il nome di ‘Stato sociale’. E’ il modello di Stato sociale a dirci se un particolare diritto sociale, un diritto di cittadinanza, è tutelato.
La scuola è il sistema attraverso cui l’affermazione del diritto all’istruzione si traduce in effettività.
Ne discendono due condizioni:
l’impossibilità di degradare tale diritto a diritto individuale ad acquistare sul mercato quote di istruzione e cultura. Si produrrebbe uno scivolamento verso forme di democrazia censitaria
la necessità di dare alla scuola strumenti per essere luogo di comunicazione, di accettazione delle differenze, di costruzione di legame sociale. La scuola è il luogo dove si sperimenta il primo rapporto istituzionale con lo Stato, la prima sede per tutti di vita collettiva in cui si sperimenta l’esercizio dei propri diritti. Non può essere somma di luoghi separati, monoculturali, internamente omogenei.
I destinatari del diritto non sono solo coloro che sono già cittadini: l’istruzione è un diritto di cittadinanza nel senso che porta ad essa, la costruisce.
Come per altri diritti sociali, l’istruzione è rivolta a chi è in un luogo indipendentemente dalla qualità formale della sua appartenenza. Non riguarda più solo il CITIZEN, ma il DENIZEN, chi E’ in un luogo. Chi abita un luogo ha diritto di apprendere e comprendere in quel luogo.
I diritti un tempo patrimonio dei cittadini diventano patrimonio di tutti coloro che si trovano in un territorio: essi hanno diritto in virtù della loro presenza a essere istruiti e curati, a conoscere, parlare, lavorare.
Questo ampliamento non può risolversi restrittivamente in una inclusione dell’altro nel proprio sistema, incorporandolo all’interno di una comunità culturalmente chiusa: ciò costituirebbe una negazione dei soggetti; deve pertanto riconoscere le specificità e le necessità di coloro cui si rivolge.
Richiede il riconoscimento delle culture di cui chi viene da altri luoghi è portatore, di rinunciare ad alcuni aspetti della propria per favorire l’incontro con l’altro; per crescere nel confronto con altri modi di rapportarsi ai processi di conoscenza, con altre tradizioni, con altre espressioni.
La dimensione interculturale dell’insegnamento non è uno dei tanti progetti, è la dimensione necessaria e normale dei processi di comunicazione oggi, centrale per la comprensione e la costruzione di senso.
Proclamare il diritto verso i denizen apre a una positiva visione di rapporti culturali non etnocentrati e alla costruzione di identità non difensive, e a una dimensione globale non separata dalla costruzione di significati condivisi.
Occorre puntare a una comprensione del presente, a chiarirci, ognuno di noi sul nostro essere ‘meticci’, attraversati da culture – musica, arte, oggetti di vita quotidiana, forme linguistiche, cibo, vestiti,…- un tempo molto distanti e ormai prossime. Si è ‘migranti’ anche quando si è fermi in un luogo in quanto inseriti in un flusso globale di comunicazione che ci de-localizza, ci dà una diversa cognizione della nostra localizzazione.
Leggendo i dati del dossier statistico della Caritas sull’immigrazione possiamo rilevare:
siamo di fronte in misura crescente alla seconda generazione dell’immigrazione; i nati in Italia sopravanzano che viene per la prima volta in Italia; non è quindi del tutto esatto centrare tutto il problema scolastico sull’educazione linguistica/apprendimento della lingua italiana
l’apporto di nascite di ‘stranieri’ è fondamentale per riportare il saldo naturale della popolazione in attivo, quindi è un fattore di dinamizzazione e mobilità demografica
l’identità dei ragazzi e delle ragazze, il superamento degli ostacoli culturali e linguistici, il grado di integrazione, sono in stretta connessione con l’integrazione della famiglia, con il sui ‘progetto di migrazione’
il fenomeno dei ritardi rispetto all’età di frequenza di ordini di scuola e classi dipende da molti aspetti (età di inizio dell’obbligo in diversi paesi, tradizioni familiari, scelte della scuola per cui all’età anagrafica non corrisponde automaticamente la collocazione nella classe corrispettiva; mentre è forte il fenomeno della ripetenza - tra i ripetenti più del 90% sono nati fuori Italia e venuti recentemente -, dell’abbandono, della dispersione specie a cavallo fra scuola media e superiore)
il sistema scolastico italiano è in gran parte impreparato e si muove isolatamente- ogni scuola per sé - e spesso volontaristicamente, fatte salve esperienze di alcuni enti locali, comuni, province
l’orientamento è anch’esso insufficiente: l’84% di studenti stranieri si iscrive a scuole di tipo tecnico o professionale, un’istruzione che sembra garantire stretta correlazione con la possibilità di un lavoro in relazione alla situazione economica e alle prospettive familiari più che alle aspettative dei ragazzi.
Su questa situazione fluida e spesso che presenta carenze sul piano della garanzia di maggiori opportunità per chi è in situazione di svantaggio si abbatte come una scure l’emendamento sulle ‘classi ponte’ o classi di ‘inserimento’. Non è così negli altri paesi di più prolungata esperienza di emigrazione. In Belgio ad esempio un logopedista, retribuito dalla municipalità, attraverso dei colloqui stabilisce la classe - comune -dove il soggetto può essere più opportunamente collocato.
Quella dell’emendamento è in ogni caso una proposta inattuabile che alla fin fine penalizzerebbe gli stessi ragazzi italiani.

di Giancarlo Cavinato, Pavone Risorse 17.1.2009

lunedì 5 gennaio 2009

Darwin spiega Dio

Nel bicentenario della nascita del grande naturalista tre studiosi individuano le ragioni per cui le sue teorie sono tanto contestate.
Così Darwin spiega Dio
Una spinta evolutiva ci fa ritenere che tutto abbia uno scopo: perciò tendiamo a credere nell'esistenza di un essere superiore.
Tutto deve avere per noi una spiegazione. Ogni spiegazione che ci danno o che ci diamo, la accogliamo con una grande soddisfazione e un vero sollievo psicologico. Perché ne abbiamo bisogno. Non possiamo vivere senza spiegazioni. Che sono poi di due grandi tipi: che cosa ha causato o causerà un dato evento e con quale scopo ciò è accaduto o accadrà. L'esistenza di una causa, ma soprattutto di un fine, presuppone quindi quasi sempre per noi l'intervento di un agente animato, anche per spiegare l'origine del mondo e le vicende del processo evolutivo. È per noi uomini quasi una necessità fisica. Questa, stretta stretta, potrebbe essere la sintesi del bel libro Nati per credere di Vittorio Girotto, Telmo Pievani e Giorgio Vallortigara recentemente uscito da Codice Edizioni (pp. 203, e 19). A tutto questo andrebbe in verità aggiunto il fatto che noi viviamo come «cuccioli » o giovani adulti per tanto tempo e ci aspettiamo sempre, più o meno inconsapevolmente, che qualcuno ci accudisca, o almeno pensi a noi e non ci ignori.Queste considerazioni chiariscono la nostra naturale inclinazione a credere all'esistenza di esseri e agenti sovrannaturali o preternaturali, e potrebbero rappresentare un potente antidoto alle tonnellate di sciocchezze, più o meno intellettualmente raffinate e finemente argomentate, che ci toccherà di ascoltare in questo 2009, anno darwiniano per eccellenza, contro Darwin e le affermazioni del darwinismo nel suo complesso. Perché siate sicuri che qualcosa del genere accadrà; troppa è la nostra naturale diffidenza, se non avversione, nei riguardi delle semplici e lineari formulazioni del darwinismo e del neodarwinismo.
Possiamo comprendere perché le cose stiano in questi termini? Tale è appunto la domanda che i nostri autori si pongono e alla quale cercano di rispondere nel quadro delle loro competenze individuali — rispettivamente la psicologia cognitiva del pensiero e del ragionamento (Girotto), la dottrina evoluzionistica (Pievani) e l'etologia (Vallortigara). Tutti e tre concordano comunque sul fatto che la spiegazione possa e debba essere cercata nelle pieghe dello stesso processo evolutivo che ha forgiato il nostro corpo e la nostra mente.
Per poter controllare il proprio comportamento e renderlo adeguato alle mutevoli circostanze della vita, molti animali e certamente gli esseri umani hanno bisogno di rendersi conto di cosa produce cosa e di che cosa si deve fare per ottenere un certo risultato. È parte integrante della loro percezione del mondo e della pianificazione del loro agire. Poiché noi siamo particolarmente bravi in questo e abbiamo dimostrato di riuscire a cogliere le minime sfumature dei rapporti causali e della finalizzazione delle azioni, è naturale pensare che tutto questo ci sia particolarmente presente, fin dalla nascita. Gli esperimenti lo dimostrano e mostrano come queste nostre convinzioni largamente innate vengano progressivamente alla ribalta negli anni della nostra infanzia e possano però anche essere «educate» e modificate sulla base delle esperienze di vita cui ciascuno di noi va incontro. Il libro di cui stiamo parlando è particolarmente ricco di osservazioni e di resoconti di esperimenti del genere. Direi che quasi niente è stato trascurato e il libro si dipana magistralmente tra argomentazioni, controargomentazioni, riflessioni e risultanze sperimentali.
Apprendiamo quindi, tra le altre cose, che il bambino possiede già a pochi mesi di vita una sua idea della causalità e della necessità di un agente causale per generare un movimento, mentre occorre aspettare tre-quattro anni perché concepisca l'idea di finalità e la attribuisca ad un agente dotato di mente e di possibilità di progettare (e di simulare). Ciò fa parte, a quanto pare, dell'ordine naturale delle cose. È interessante notare altresì che alcuni ammalati di Alzheimer perdono la nozione di causalità senza perdere quella di finalità.
Tanto si può dire per la nostra avversione ad ammettere l'esistenza di meccanismi semplici e chiari, ma ciechi e senza scopo, alla base del processo che ha portato a tutte le attuali forme di vita a partire da un primitivo gruppo di organismi ancestrali vissuti sulla terra quasi quattro miliardi di anni fa. Il passaggio da questo atteggiamento alla fede vera e propria in uno o più esseri superiori è assai breve. Basta assumere, come fanno i nostri autori, che in noi operino un paio di effetti collaterali della spinta evolutiva che ci porta a credere che tutto abbia una causa e uno scopo.
Uno di questi potrebbe essere che la fede in un essere superiore che ci segue dall'alto e può giudicarci favorisca il comportamento altruistico, o almeno non troppo egoistico, necessario per lo sviluppo di una vita sociale, della quale noi abbiamo particolarmente bisogno. Il secondo punto potrebbe essere che la fede in una qualche forma di sopravvivenza, del corpo o di una parte di esso, aiuti a superare il terrore della fine, fondamentale per noi che siamo gli unici animali a sapere che moriremo. Ciascuna di queste due convinzioni, se ben radicata, costituisce un fattore che favorisce la sopravvivenza, nostra e dei nostri antenati. Personalmente non sono sicuro che questi siano effetti collaterali di una sola spinta evolutiva primaria o piuttosto non costituiscano essi stessi potenti spinte evolutive indipendenti e concorrenti, portanti ciascuna un suo vantaggio. A tutto questo aggiungerei, come ho già detto sopra, la nostra inclinazione a volerci sentire «pensati» da qualcuno, qualcuno che sia vivo, sollecito e dotato di progettualità. Tutto questo e molto di più si può trovare nel bel libro Nati per credere. Ed è anche inutile aggiungere che tutto quello che abbiamo detto non si applica soltanto alla spiegazione della nascita di una religiosità naturale, ma può riguardare anche lo sviluppo delle religioni rivelate. Anche in questo caso infatti occorre spiegare perché a tali rivelazioni abbiamo creduto, in massa e con entusiasmo, perché ne abbiamo accolto il Verbo e lo abbiamo fatto nostro.


Edoardo Boncinelli, Biologo, Il Corriere della Sera 2.1.2009